E.N.
E.N. Esprit Nouveau
2008
Wood, Neon, cardboard
226 x 207 x 52 cm
Agenzia04, Bologna
E.N. Esprit Nouveau
2008
Collage sur papier
70 x 50 cm
Luigi Fassi
Davide Cascio
Esprit Nouveau
Quando nel 1925 Le Corbusier presenta all’Esposizione internazionale delle arti decorative di Parigi il padiglione dell’Esprit Nouveau, riproponendo il titolo della celebre rivista programmatica da lui pubblicata dall’ottobre del 1920 sino al gennaio del 1925, l’intento dell’architetto svizzero-francese è di proporre una versione esauriente dell’idea di cellula residenziale-tipo, intesa come camera abitativa primaria ed essenziale. La scarsità delle risorse finanziarie e la penuria di tempo a disposizione non rendono tuttavia possibile a Le Corbusier terminare il Padiglione secondo le intenzioni effettive del progetto, dotandolo cioè di elementi prefabbricati, pannelli solari per l’approvvigionamento di energia e arredamenti divisori appositamente disegnati. Il progetto rimane così abbozzato con materiali precari e, di fatto, incompiuto. A questi contrattempi logistici si accompagna un più grave incidente pubblico, generato dallo scandalo suscitato dalla struttura del Padiglione nei visitatori dell’Esposizione. La reazione è a tal punto negativa, nel contrasto con il gusto trionfalistico dominante negli altri padiglioni della manifestazione, che la direzione dell’Esposizione parigina decide di circondare la costruzione di Le Corbusier con una palizzata alta diversi metri, sino a impedirne la vista e l’accesso. Solo l’intervento del ministro dell’Educazione nazionale francese renderà possibile riaprire al pubblico l’accessibilità al Padiglione Esprit Nouveau. L’idea germinale approntata da Le Corbusier in questo intervento diventa pienamente fruibile solo molti anni più tardi, nel ‘77, quando alcuni architetti bolognesi vicini a Le Corbusier decidono di ridare vita al Padiglione del ’25 nella città di Bologna, in occasione di un’esposizione di architettura dedicata alla Francia, realizzandolo in cemento ed in forma completa come previsto nel suo progetto originario di mezzo secolo prima. Su un lato di questa ricostruzione filologicamente precisa dell’edificio bolognese campeggiano le lettere E.N., in volume architettonicamente prospettico, diventando esse stesse una formulazione manifesta ed esemplare del modello abitativo disegnato da Le Corbusier.
La volontà di Davide Cascio di riproporre a Bologna, in termini scultorei e installativi, le due lettere di Esprit Nouveau, si sostanzia dall’uso di materiali semplici e minimi, come legno, cartone e neon. La texture con cui esse sono costruite riprende quella del progetto per le Immeubles-Villas di Le Corbusier a Marsiglia, strutture a griglia al cui interno vengono inseriti volumi abitativi in successione organizzata. L’intervento di Cascio non intende registrare un’esattezza filologica o un’erudizione documentaria espressa in termini agiografici e monumentali, quanto piuttosto dare spazio a un’evocazione di simboli e rimandi evocati dalle riflessioni razionaliste di Le Corbusier, muovendo dalla suggestione, geograficamente tautologica, del progetto bolognese del ’77. Così come il Padiglione lecorbusiano del ’25 rappresentava un’idea lineare e sostenibile di abitazione, Davide Cascio riprende tale prospettiva di armonia funzionale tracciando l’ipotesi di una misura aurea e antropometrica per le dimensioni dell’installazione E.N. In “Quando le cattedrali erano bianche”, pubblicato nel ’36 come diario di appunti dopo il suo primo viaggio americano, scrive Le Corbusier: “L’uomo si limita ad una scatola che è la sua camera; e una finestra si apre sull’esterno. Questa è una legge della biologia umana; la cella quadrata, la camera, è l’autentica e utile creazione umana. Questa finestra dietro la quale è collocato l’uomo, è un poema d’intimità, di libera considerazione delle cose”. Il tema dell’abitabilità e della sua esemplarità è centrale in tutto il lavoro di Cascio, dove è l’idea di forma a dominare, declinata in una molteplicità di modi e possibilità, ma tutte orientate in chiave umanistica e razionale. L’esercizio artistico di Cascio si è così dipanato, in diverse opere, mediante la formulazione di ipotetiche tipologie ambientali, caratterizzate da funzionalità distinte e immaginifiche. San Girolamo nello studio (2003) operava una prima riflessione in tal senso, riproducendo in termini proporzionalmente esatti lo studio di San Girolamo così come rappresentato nell’opera di Antonello da Messina. Lo studio del Santo, ridotto da Cascio a unità abitativa elementare, spogliato di ogni dettaglio personale, diventa un luogo mentale, una camera di apparizione, non dissimile da quelle dove è collocata Maria in una molteplicità di Annunciazioni in pittura. Quest’opera esprime dunque un’ipotesi precisa di abitabilità come modello filosofico, come sintesi di armonia antropometrica e aspirazione metafisica, annunciando l’interesse dell’artista per una formula media, un ambiente capace di coniugare razionalità e utopismo, docilità domestica e intuizione ideale.
Polyhedra, stanza per leggere l’Ulisse di Joyce (2004) accentua l’idea di camera cellulare come spazio di risonanza e di rifugio spirituale, costruito con canoni matematicamente esatti, in questo caso un poliedro di ventisei lati, per rispondere ad esigenze precedentemente misurate e intenzionate già dal titolo dell’opera. L’idea di abitabilità e di modulo abitativo si caratterizza in Davide Cascio con una prossimità elettiva alla concezione di hortus conclusus della tradizione medievale, come luogo di idealità pacificato e atemporale, a metà strada tra contingenza e trascendenza, dedicato a determinate funzioni e allestito mediante molteplici figure simboliche. Questa strategia di rarefazione intellettuale messa in atto dall’artista fa rimanere la Storia una presenza solo indiretta, di cui le sue opere si rivelano uno specchio rovesciato, quasi dei paradigmi immobili posti a modello della realtà sempre imperfetta. La scultura architettonica di Esprit Nouveau lascia affiorare in termini ancora più essenziali e sintetici questo percorso ideale compiuto da Cascio, mediante l’evocazione di una razionalità filosofica assoluta, quella dell’ipotesi lecorbusiana, qui riprodotta nella concretezza architettonicamente sostenibile delle due lettere alfabetiche, disegnate in rapporto ad un’antropometria abitativa plausibile ed effettiva.
La seconda installazione in mostra, Project for a Happy Island, propone con un’economia altrettanto minimale di mezzi e strumenti un’aggregazione metropolitana ideale, una sorta di possibile skyline modernista, sospesa tra avanguardia anni Venti e dimensione futuribile. L’opera concentra l’attenzione su forme nitide e lineari, che suggeriscono una vicinanza formale con volumetrie prismatiche proprie di cristalli naturali e concrezioni minerali. La ricerca del rapporto tra forma e sostanza, modello e funzione, diventa qui distillazione di un’esattezza visiva, una sorta di umanesimo fuori dal tempo, interessato a rintracciare la prossimità ideale tra uomo e natura, modularità abitative e oggettualità naturali essenziali. Fondamentale nell’opera è l’idea di scala, la sua capacità di accostare macroscopico e microscopico, universo naturale compiuto e dettagli di un urbanesimo possibile. Idealità e realtà si specchiano qui l’una nell’altra, riverberando una dialettica della distanza centrale nel lavoro di Cascio, quella tra modello ed esempio, archetipo e derivazione.
Nell’artista svizzero è costantemente presente una matrice di pensiero idealistico, declinata mediante la ricerca di una genealogia effettiva all’interno della storia delle utopie occidentali. Project for a Happy Island richiama così, sin dal titolo, una molteplicità di modelli teorici astratti di città perfette e razionali, rintracciabili nella letteratura politica che va dall’antichità al Rinascimento. Riferimenti possibili potrebbero essere i modelli urbanistici funzionali del Rinascimento Italiano, come quelli di Leon Battista Alberti e Filarete, ma la letteralità dell’installazione sembra richiamare anzitutto l’isola di Utopia di Thomas More, regno di armonia erede del razionalismo classico, fatto di comunanza assoluta di beni e popolato da abitazioni interscambiabili, racchiuse ciascuna entro i confini di lussureggianti giardini. La centralità del tema dell’abitabilità è qui ancora rappresentata da Cascio nella sua tensione tra idealità e praticità, tra programmazione modulare organizzata in chiave lineare e improvvisazione individuale. In un gioco di rimandi storici, si ritorna così a Le Corbusier e al Cabanon, l’unità abitativa minimale costruita dall’architetto per suo uso privato sulla spiaggia di Cap Martin in Costa Azzurra, senza vetri e con aperture variabili, ma un ulteriore riferimento è anche il naturalismo filosofico di Henry Thoreau e della sua capanna presso il lago Walden nel Massachussets. Project for a Happy Island dà a Cascio, similmente, la possibilità si avventurarsi nella formulazione di un’utopia personale, come libero esercizio del pensiero, come ipotesi filosofica o gioco d’intelligenza. L’isola è così solo un pretesto, un topos letterario, classicamente ideale, adoperato dall’artista per ridisegnare i confini di una sapienza individuale, misurando la scarto tra astratto e concreto, spazio immaginario e spazio storico.
Il movimento dell’utopia come occasione del pensiero, come motore immobile dell’intelligenza, viene ripreso anche nei due collage Utopo e Black Map. Il primo è un disegno di misure antropometriche e forme geometriche islamiche, dove il posizionamento dei parallelepipedi compone un’armonia razionale-naturale, suggerendo la formula di un umanesimo di sapore rinascimentale, conciliato tra sapienza classica e cultura orientale. In Black Map torna invece l’alternativa più nitidamente utopica, la possibilità di tracciare la mappa di un luogo ideale mediante una cartografia ipotetica, svincolata da ogni orientamento determinato. L’indistinzione tra ideale e reale dilaga qui in una formula creativa morbida e fluida, aperta a tutte le intepretazioni personali, i cui riquadri diventano tessere di un puzzle liberamente pensabile. L’artista si sgancia in tal modo da ogni prevedibilità ermeneutica, privilegiando una coniugazione molto più personale sul lascito della tradizione utopica occidentale, di cui il razionalismo modernista è configurazione importante ma non esclusiva. Tanto Utopo quanto Black Map trasmettono infatti un’idea cosmogonica di infinita variabilità riproduttiva, di molteplicità geometrica come strategia aperta e in divenire. L’hortus conclusus medievale di partenza si è qui infranto nella sua perfettibilità teologica, lasciando spazio a un universo completamente laico e non più riconducibile ad alcuna unità.
Le Courbusier
Pavillon de l’Esprit Nouveau
Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes,
Paris, 1925 et Bologna 1977.